Le foglie cominciavano a cadere dagli alberi e rinsecchivano per terra.
L’uno
di fronte all’altra davanti alla casa stavano seduti su due massi intorno al
fuoco; il vecchio inalava il fumo dalla pipa e la bimba, in silenzio, ammirava
le spirali di fumo azzurrognolo che salivano dense nell’aria illuminata dal
riverbero della fiamma che bruciava il ciocco.
Era
una canna lunga almeno mezzo metro dal bocchino ricurvo, che l’uomo aveva
estratto con calma da qualche parte nelle profondità del tabarro nero buttato
sulle spalle che l’avvolgeva, il cappello scuro a larga falda ben calcato in
testa per combattere l’umidità della sera. Reggeva il cannello dal centro con
due dita, come fosse un oggetto molto delicato, prezioso. La fiamma dello
stecco, spezzato da un ramo secco raccolto da terra, gli serviva per accendere
la pipa. Poggiava sul fornelletto, mentre lui aspirava ritmicamente, gonfiando
e sgonfiando le guance. Boccheggiava come un pesce per diffondere meglio la
fiamma sul tabacco, in modo che bruciasse uniformemente. Poi rilasciava
nell’aria sbuffi bianchi, uno di seguito all’altro.
Di
tanto in tanto staccava dalle labbra il dente del sottile bocchino e
controllava la combustione, utilizzando il pigino delicatamente, con estrema
perizia, per ricompattare il trinciato. Il filo di fumo si alzava regolare dal
focolaio di radica. Incantata, la
nipotina lo guardava nell’oscurità che avanzava, mentre l’alternanza
ondivaga delle ombre, allungandosi e accorciandosi a seconda dell’altezza della
fiamma crepitante ai suoi piedi, contribuiva a rendere misteriosa la sera. Quel
riflesso rossastro segnava il volto del nonno, marcato dalle rughe,
ridisegnandone le occhiaie. Martina avvertì un brivido di freddo, mentre,
circospetta, si guardava intorno, sforzandosi di scoprire il mondo che si
nascondeva inquieto intorno a lei.
“Vieni
qui!” l’esortò il vecchio. La piccola si compiacque dell’invito e subito si
strinse accanto al nonno che le ricoprì le spalle con un lembo del mantello.
“Non devi avere paura del buio.” proseguì con bonomia . “Vedi ora qui tutto è
sicuro. Una volta, però, queste terre erano abitate da esseri strani che
preferivano non manifestarsi agli uomini. Uscivano solo di notte, quando
nessuno li poteva vedere. Non che fossero cattivi, che io sappia. È che
s’intimidivano facilmente e allora perdevano il controllo di sé stessi e potevano
innervosirsi. Se venivano lasciati in pace, invece, diventavano tanto buoni da
fare trovare dei regali strabilianti ai bimbi di chi consentiva loro di vivere
come gradivano. Nessuno li aveva mai visti, perché allora gli abitanti del
luogo andavano presto a letto per potersi alzare all’alba al mattino, pronti
per il lavoro nei campi e non avevano tanti grilli per la testa. Tutto
procedeva bene fino a quando ai contadini del circondario non incominciò a
sparire qualcosa: le galline da un angolo della stalla di Bartolo, i conigli
dalla conigliera di Modesto e le uova dalla stia del pollaio di Carmela.
Si
sarebbe potuto pensare all’opera di un vagabondo ma non c’erano orme di scarpe
nei dintorni, né tracce di volpi o di furetti o di un niente che fosse. Allora,
incolparono i folletti che operavano nell’oscurità della notte, che di
carattere, si sa, sono dispettosi. E tesero loro una trappola. Nottetempo,
Bartolo si appostò nei pressi della stalla; Modesto fuori della conigliera e
Carmela vicino alla stia. Quella notte, stranamente, trascorse tranquilla e non
si vide, né sentì nessuno. L’assedio fu tolto, ma la notte successiva fu un
vero disastro. Diversi conigli, galline e le loro uova sparirono, causando
l’irritazione furibonda dei proprietari. Non potevano certo continuare a non
dormire di notte per far la guardia e compromettere così la cura dei campi che
li impegnava ogni giorno severamente. Perciò si rivolsero a un cacciatore,
pregandolo di vigilare per conto loro dietro adeguato compenso. Il cacciatore
accettò e quella notte era ben sveglio e pronto a prendere il ladro con le mani
nel sacco…”.
Il
nonno continuava il racconto e la piccola sentiva gli occhi pesanti, mentre
seguiva le contorte volute di fumo che s’innalzavano dalla pipa sparendo nella notte.
A quel punto fu attratta dal luccicare di miriadi di puntini, piccoli come la
capocchia degli spilli nel cielo nero come era nero il velluto dei pantaloni
del nonno. Scintillavano e sembravano diminuire e aumentare d’intensità, quasi
le facessero l’occhiolino. Guardò meglio e s’accorse che, lungo i raggi di
quelle luci così lontane, scendeva verso di lei una fila di omini, piccini
piccini. Si meravigliò e acuì l’attenzione, fissando lo sguardo sui piccoli
esseri.
Erano
folletti vestiti di verde, con cappelli
a punta a forma di cono. Le accarezzarono la mano, invitandola a
seguirli. Alcuni la sollevarono delicatamente dalle ascelle, altri dalle
caviglie, mentre i primi della fila le reggevano le mani, rassicurandola. Così,
con le braccia spalancate s’alzò in volo. Provò l’ebbrezza di un tuffo nella
notte. Guardò in basso e vide il nonno rimpicciolire sempre di più, avvolto in
una nuvola di fumo. Mentre lei saliva, il nonno continuava a raccontare la sua
storia, senza accorgersi di nulla e ora sembrava proprio una statuina del
presepe. I folletti, intanto, si scambiavano informazioni, ridendo, di tanto in
tanto, fra di loro con voce stridula. Poceka, poceka, poceka, poceka: che
strana lingua!
Evidentemente la bimba era entrata nelle loro simpatie come loro riuscivano
simpatici alla bimba. “Poceka poceka poceka” dissero i folletti, indicando un
fuoco acceso in una radura vicina. Ma ecco che all’improvviso, con sua grande
meraviglia, la bimba cominciò a intendere il loro linguaggio. “Guarda lì e saprai
chi ruba animali e uova ai contadini!” dicevano, indicando qualcosa. La bimba
ne aveva afferrato il senso, comprendendo per la prima volta il loro strano
linguaggio fatto di suoni velocizzati al massimo. Erano agitati e segnalavano,
con l’indice della manina teso, un’ombra scura che s’agitava intorno alla
fiamma.
“È
la strega!” - strillarono i folletti - “Guarda, guarda, ora si trasforma!” I
“poceka” si moltiplicarono, sgorgando a fontanelle. Lei ascoltava incuriosita
le loro espressioni di contrarietà. Gli occhioni della bimba erano spalancati
di meraviglia, quando dall’alto si avvide di quello che stava combinando la
strega. S’accorse che ai suoi piedi c’era un serpentello e che la strega, dopo
aver bevuto un intruglio, lentamente stava cambiando le sembianze. Prima le
gambe, poi il corpo ed infine la testa entrarono nella pelle distesa del
serpente. Man mano che lei entrava, il serpente diventava sempre più grande,
fino a diventare enorme. In testa spuntarono due cornetti e lo sguardo diventò
nero e cattivo. Continuò ad allungarsi fino a
raggiungere la lunghezza e la forza di un bue. Quindi, la grossa serpe
strisciò verso il pollaio vicino. Era così silenziosa che nessuno l’avrebbe mai
potuta sentire. Inoltre, si apriva la strada fra l’erba senza calpestarla, in
quanto non aveva piedi, ma solo incuneandosi tra foglia e foglia, tra stelo e
stelo e srotolandosi come una grossa matassa viscida.
“Incredibile,
inaudito, incolpare noi dei furti subiti dai contadini! Noi che non c’entriamo
nulla e che ci diamo da fare a rendere fertile la terra che lavorano, a
regolare gli argini dei fiumi, a pulire la foresta dai rami e foglie secche.
Invece ci accusano di scompigliare i capelli alle donne, di fare dispetti agli
animali, di mettere in disordine i loro attrezzi, di correre tutta la notte.” -
protestavano i folletti che, tuttavia, non erano del tutto estranei a quelle
bravate, solo per divertirsi, naturalmente; qualche monelleria l’avevano sulla
coscienza - “E questa è la ricompensa?
La strega si trasforma in un serpente con i cornetti da cervo - e imitavano i cornetti della
strega/serpente - e va a svaligiare arnie e stie, e noi ne dovremmo subire le
conseguenze?!” s’infervoravano i piccoli abitanti della foresta, ridacchiando
amaramente fra di loro, perché i folletti non possono far a meno di ridere
neanche quando sono arrabbiati. “Andiamo ad annientare il piano della strega
cattiva!” “Si,si,si,si, andiamo, andiamo!” gridarono in coro, ridacchiando,
agitandosi, rivoltandosi in aria e saltandosi l’un l’altro, giocando al salto
della cavallina.
Scesero
veloci verso il serpente che era diretto al pollaio di Carmela. In breve
atterrarono, e con loro la bimba. Il
serpente era enorme, mentre i folletti erano minuscoli. Ma, si sa, i folletti
sono testardi e furbi. Iniziarono a correre intorno a quell’elefante di
serpente che cercava di spostarsi rapidamente, come sa fare un serpente,
dimenando il capo a destra e sinistra prima di scattare, cercando di mangiare
le fastidiose mosche/folletto che lo frastornavano. Ma i folletti erano più
rapidi di lui e facevano una baraonda infernale, confondendolo sempre di più.
Vistosi a mal partito, virò verso la stalla di Bartolo dove le galline
dormivano nell’angolo dietro la mangiatoia delle vacche. Ma i folletti
cominciarono a provocare le vacche nei loro stalli che, temendo che qualcuno
volesse rubare loro il latte, attaccandosi alle mammelle, pestarono e
scalciarono come forsennate. Il serpente malvagio non riusciva a passare,
rischiando di essere più volte ridotto a fricassea, bello e spacciato, e batté
in ritirata per non essere travolto. Verde dalla rabbia si girò, dirigendo la
sua attenzione alla conigliera di Modesto. Cercava di nascondersi fra l’erba
alta per non farsi scoprire, ma i folletti lo seguirono. Ivi giunto si preparò
a fare una scorpacciata di conigli, spalancando le fauci che erano
spaventosamente grandi. Ma gli omini verdi, che ne sapevano una più del
diavolo, con la rapidità del fulmine gli piantarono un ramo appuntito fra le
fauci in modo da impedirgli di richiuderle. Il serpente sfiatava come un leone
e si contorceva nel tentativo di liberarsi da quella incomoda posizione. La
lingua biforcuta vibrava in tutte le direzioni, tentando di attorcigliarsi al
bastone per strapparselo via. Ma non riusciva, né la strega ch’era in lui
poteva fare nulla per ritornare nella sua forma originaria e liberare il povero
animale di cui si era impossessata, perché la pozione era rimasta nella radura,
accanto al fuoco. I folletti, intanto, ballavano tenendosi per mano ed
improvvisando un confuso girotondo, fra risa di scherno per il serpente/strega,
stridii, grida e poceka poceka poceka di gioia, urlati a più non posso.
Il
serpente batté in ritirata, allontanandosi più velocemente possibile da quei
luoghi infausti. Riguadagnò la foresta in cerca di pace per pensare a superare
le sue difficoltà. Mentre la strega moriva dalla rabbia per non aver mangiato
nulla in quella notte terribile. La bimba sentiva i folletti che ridevano
ancora e ancora e ancora mentre lei batteva le manine, contenta, ma sembravano
allontanarsi, come se fossero in un'altra dimensione, come se uscissero dalla
porta. Percepì, allora, un’altra voce, anch’essa lontana, ma sempre più vicina;
continuava a raccontare una storia che doveva essere bella. A lei piacevano tanto
le favole, ma preferiva quelle che finivano bene, dove c’erano persone che alla
fine vivevano felici e contenti per mille, mille e mille anni ancora. La voce
si avvicinava e la cullava. La faceva
sognare. Era rassicurante il suo tono, come rassicurante era il tepore che
avvertiva. Quella voce…la conosceva!
Era
del nonno che continuò: “Da quel giorno il serpente cervone, così chiamato per
i cornetti che aveva sul capo, fu detto anche pasturavacca, perché si
accontentava di bere il latte, attaccandosi alle mammelle delle mucche, ma di
giorno soltanto. Aveva imparato la lezione e non si avventurò mai più al buio,
di notte, per non cadere nelle grinfie di qualche strega che lo costringesse a
subire la sorte del suo antenato; ora caccia solo di giorno, quando può
rendersi ben conto con chi ha a che fare.”.
Il
nonno taceva. Lei aprì a forza un
occhio e capì che poggiava in grembo a lui. Le braccine pendevano
lungo le sue gambe. Le sembrò di guardare in alto, girando leggermente la testa, per riconoscere la
sagoma ben nota. Fumava tranquillamente, boccata dietro boccata,
accarezzandola, perduto nel silenzio della notte. Richiuse gli occhi, mentre il nonno la
sollevava per portarla in casa. Sognava di volare.
Il
nonno le rimboccò le coperte. Lei si girò dall’altra parte, verso la
finestra da cui un raggio della luna appena sorta filtrava, mentre il
nonno sussurrava: "Buonanotte, Martina.”
Un
attimo dopo dormiva profondamente.
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