lunedì 20 luglio 2015

MARTINA - favola breve.


Le foglie cominciavano a cadere dagli alberi e rinsecchivano per terra.
L’uno di fronte all’altra davanti alla casa stavano seduti su due massi intorno al fuoco; il vecchio inalava il fumo dalla pipa e la bimba, in silenzio, ammirava le spirali di fumo azzurrognolo che salivano dense nell’aria illuminata dal riverbero della fiamma che bruciava il ciocco. 
Era una canna lunga almeno mezzo metro dal bocchino ricurvo, che l’uomo aveva estratto con calma da qualche parte nelle profondità del tabarro nero buttato sulle spalle che l’avvolgeva, il cappello scuro a larga falda ben calcato in testa per combattere l’umidità della sera. Reggeva il cannello dal centro con due dita, come fosse un oggetto molto delicato, prezioso. La fiamma dello stecco, spezzato da un ramo secco raccolto da terra, gli serviva per accendere la pipa. Poggiava sul fornelletto, mentre lui aspirava ritmicamente, gonfiando e sgonfiando le guance. Boccheggiava come un pesce per diffondere meglio la fiamma sul tabacco, in modo che bruciasse uniformemente. Poi rilasciava nell’aria sbuffi bianchi, uno di seguito all’altro.
Di tanto in tanto staccava dalle labbra il dente del sottile bocchino e controllava la combustione, utilizzando il pigino delicatamente, con estrema perizia, per ricompattare il trinciato. Il filo di fumo si alzava regolare dal focolaio di radica. Incantata, la  nipotina lo guardava nell’oscurità che avanzava, mentre l’alternanza ondivaga delle ombre, allungandosi e accorciandosi a seconda dell’altezza della fiamma crepitante ai suoi piedi, contribuiva a rendere misteriosa la sera. Quel riflesso rossastro segnava il volto del nonno, marcato dalle rughe, ridisegnandone le occhiaie. Martina avvertì un brivido di freddo, mentre, circospetta, si guardava intorno, sforzandosi di scoprire il mondo che si nascondeva inquieto intorno a lei.

“Vieni qui!” l’esortò il vecchio. La piccola si compiacque dell’invito e subito si strinse accanto al nonno che le ricoprì le spalle con un lembo del mantello. “Non devi avere paura del buio.” proseguì con bonomia . “Vedi ora qui tutto è sicuro. Una volta, però, queste terre erano abitate da esseri strani che preferivano non manifestarsi agli uomini. Uscivano solo di notte, quando nessuno li poteva vedere. Non che fossero cattivi, che io sappia. È che s’intimidivano facilmente e allora perdevano il controllo di sé stessi e potevano innervosirsi. Se venivano lasciati in pace, invece, diventavano tanto buoni da fare trovare dei regali strabilianti ai bimbi di chi consentiva loro di vivere come gradivano. Nessuno li aveva mai visti, perché allora gli abitanti del luogo andavano presto a letto per potersi alzare all’alba al mattino, pronti per il lavoro nei campi e non avevano tanti grilli per la testa. Tutto procedeva bene fino a quando ai contadini del circondario non incominciò a sparire qualcosa: le galline da un angolo della stalla di Bartolo, i conigli dalla conigliera di Modesto e le uova dalla stia del pollaio di Carmela.

Si sarebbe potuto pensare all’opera di un vagabondo ma non c’erano orme di scarpe nei dintorni, né tracce di volpi o di furetti o di un niente che fosse. Allora, incolparono i folletti che operavano nell’oscurità della notte, che di carattere, si sa, sono dispettosi. E tesero loro una trappola. Nottetempo, Bartolo si appostò nei pressi della stalla; Modesto fuori della conigliera e Carmela vicino alla stia. Quella notte, stranamente, trascorse tranquilla e non si vide, né sentì nessuno. L’assedio fu tolto, ma la notte successiva fu un vero disastro. Diversi conigli, galline e le loro uova sparirono, causando l’irritazione furibonda dei proprietari. Non potevano certo continuare a non dormire di notte per far la guardia e compromettere così la cura dei campi che li impegnava ogni giorno severamente. Perciò si rivolsero a un cacciatore, pregandolo di vigilare per conto loro dietro adeguato compenso. Il cacciatore accettò e quella notte era ben sveglio e pronto a prendere il ladro con le mani nel sacco…”.

Il nonno continuava il racconto e la piccola sentiva gli occhi pesanti, mentre seguiva le contorte volute di fumo che s’innalzavano dalla pipa sparendo nella notte. A quel punto fu attratta dal luccicare di miriadi di puntini, piccoli come la capocchia degli spilli nel cielo nero come era nero il velluto dei pantaloni del nonno. Scintillavano e sembravano diminuire e aumentare d’intensità, quasi le facessero l’occhiolino. Guardò meglio e s’accorse che, lungo i raggi di quelle luci così lontane, scendeva verso di lei una fila di omini, piccini piccini. Si meravigliò e acuì l’attenzione, fissando lo sguardo sui piccoli esseri.
Erano folletti vestiti di verde, con cappelli  a punta a forma di cono. Le accarezzarono la mano, invitandola a seguirli. Alcuni la sollevarono delicatamente dalle ascelle, altri dalle caviglie, mentre i primi della fila le reggevano le mani, rassicurandola. Così, con le braccia spalancate s’alzò in volo. Provò l’ebbrezza di un tuffo nella notte. Guardò in basso e vide il nonno rimpicciolire sempre di più, avvolto in una nuvola di fumo. Mentre lei saliva, il nonno continuava a raccontare la sua storia, senza accorgersi di nulla e ora sembrava proprio una statuina del presepe. I folletti, intanto, si scambiavano informazioni, ridendo, di tanto in tanto, fra di loro con voce stridula. Poceka, poceka, poceka, poceka: che strana lingua!

Evidentemente la bimba era entrata nelle loro simpatie come loro riuscivano simpatici alla bimba. “Poceka poceka poceka” dissero i folletti, indicando un fuoco acceso in una radura vicina. Ma ecco che all’improvviso, con sua grande meraviglia, la bimba cominciò a intendere il loro linguaggio. “Guarda lì e saprai chi ruba animali e uova ai contadini!” dicevano, indicando qualcosa. La bimba ne aveva afferrato il senso, comprendendo per la prima volta il loro strano linguaggio fatto di suoni velocizzati al massimo. Erano agitati e segnalavano, con l’indice della manina teso, un’ombra scura che s’agitava intorno alla fiamma.
“È la strega!” - strillarono i folletti - “Guarda, guarda, ora si trasforma!” I “poceka” si moltiplicarono, sgorgando a fontanelle. Lei ascoltava incuriosita le loro espressioni di contrarietà. Gli occhioni della bimba erano spalancati di meraviglia, quando dall’alto si avvide di quello che stava combinando la strega. S’accorse che ai suoi piedi c’era un serpentello e che la strega, dopo aver bevuto un intruglio, lentamente stava cambiando le sembianze. Prima le gambe, poi il corpo ed infine la testa entrarono nella pelle distesa del serpente. Man mano che lei entrava, il serpente diventava sempre più grande, fino a diventare enorme. In testa spuntarono due cornetti e lo sguardo diventò nero e cattivo. Continuò ad allungarsi fino a  raggiungere la lunghezza e la forza di un bue. Quindi, la grossa serpe strisciò verso il pollaio vicino. Era così silenziosa che nessuno l’avrebbe mai potuta sentire. Inoltre, si apriva la strada fra l’erba senza calpestarla, in quanto non aveva piedi, ma solo incuneandosi tra foglia e foglia, tra stelo e stelo e srotolandosi come una grossa matassa viscida.

“Incredibile, inaudito, incolpare noi dei furti subiti dai contadini! Noi che non c’entriamo nulla e che ci diamo da fare a rendere fertile la terra che lavorano, a regolare gli argini dei fiumi, a pulire la foresta dai rami e foglie secche. Invece ci accusano di scompigliare i capelli alle donne, di fare dispetti agli animali, di mettere in disordine i loro attrezzi, di correre tutta la notte.” - protestavano i folletti che, tuttavia, non erano del tutto estranei a quelle bravate, solo per divertirsi, naturalmente; qualche monelleria l’avevano sulla coscienza -  “E questa è la ricompensa? La strega si trasforma in un serpente con i cornetti da  cervo - e imitavano i cornetti della strega/serpente - e va a svaligiare arnie e stie, e noi ne dovremmo subire le conseguenze?!” s’infervoravano i piccoli abitanti della foresta, ridacchiando amaramente fra di loro, perché i folletti non possono far a meno di ridere neanche quando sono arrabbiati. “Andiamo ad annientare il piano della strega cattiva!” “Si,si,si,si, andiamo, andiamo!” gridarono in coro, ridacchiando, agitandosi, rivoltandosi in aria e saltandosi l’un l’altro, giocando al salto della cavallina.

Scesero veloci verso il serpente che era diretto al pollaio di Carmela. In breve atterrarono, e  con loro la bimba. Il serpente era enorme, mentre i folletti erano minuscoli. Ma, si sa, i folletti sono testardi e furbi. Iniziarono a correre intorno a quell’elefante di serpente che cercava di spostarsi rapidamente, come sa fare un serpente, dimenando il capo a destra e sinistra prima di scattare, cercando di mangiare le fastidiose mosche/folletto che lo frastornavano. Ma i folletti erano più rapidi di lui e facevano una baraonda infernale, confondendolo sempre di più. Vistosi a mal partito, virò verso la stalla di Bartolo dove le galline dormivano nell’angolo dietro la mangiatoia delle vacche. Ma i folletti cominciarono a provocare le vacche nei loro stalli che, temendo che qualcuno volesse rubare loro il latte, attaccandosi alle mammelle, pestarono e scalciarono come forsennate. Il serpente malvagio non riusciva a passare, rischiando di essere più volte ridotto a fricassea, bello e spacciato, e batté in ritirata per non essere travolto. Verde dalla rabbia si girò, dirigendo la sua attenzione alla conigliera di Modesto. Cercava di nascondersi fra l’erba alta per non farsi scoprire, ma i folletti lo seguirono. Ivi giunto si preparò a fare una scorpacciata di conigli, spalancando le fauci che erano spaventosamente grandi. Ma gli omini verdi, che ne sapevano una più del diavolo, con la rapidità del fulmine gli piantarono un ramo appuntito fra le fauci in modo da impedirgli di richiuderle. Il serpente sfiatava come un leone e si contorceva nel tentativo di liberarsi da quella incomoda posizione. La lingua biforcuta vibrava in tutte le direzioni, tentando di attorcigliarsi al bastone per strapparselo via. Ma non riusciva, né la strega ch’era in lui poteva fare nulla per ritornare nella sua forma originaria e liberare il povero animale di cui si era impossessata, perché la pozione era rimasta nella radura, accanto al fuoco. I folletti, intanto, ballavano tenendosi per mano ed improvvisando un confuso girotondo, fra risa di scherno per il serpente/strega, stridii, grida e poceka poceka poceka di gioia, urlati a più non posso.

Il serpente batté in ritirata, allontanandosi più velocemente possibile da quei luoghi infausti. Riguadagnò la foresta in cerca di pace per pensare a superare le sue difficoltà. Mentre la strega moriva dalla rabbia per non aver mangiato nulla in quella notte terribile. La bimba sentiva i folletti che ridevano ancora e ancora e ancora mentre lei batteva le manine, contenta, ma sembravano allontanarsi, come se fossero in un'altra dimensione, come se uscissero dalla porta. Percepì, allora, un’altra voce, anch’essa lontana, ma sempre più vicina; continuava a raccontare una storia che doveva essere bella. A lei piacevano tanto le favole, ma preferiva quelle che finivano bene, dove c’erano persone che alla fine vivevano felici e contenti per mille, mille e mille anni ancora. La voce si avvicinava e la cullava.  La faceva sognare. Era rassicurante il suo tono, come rassicurante era il tepore che avvertiva. Quella voce…la conosceva!
Era del nonno che continuò: “Da quel giorno il serpente cervone, così chiamato per i cornetti che aveva sul capo, fu detto anche pasturavacca, perché si accontentava di bere il latte, attaccandosi alle mammelle delle mucche, ma di giorno soltanto. Aveva imparato la lezione e non si avventurò mai più al buio, di notte, per non cadere nelle grinfie di qualche strega che lo costringesse a subire la sorte del suo antenato; ora caccia solo di giorno, quando può rendersi ben conto con chi ha a che fare.”.

Il nonno taceva. Lei aprì  a forza un occhio e capì che poggiava in grembo a lui. Le braccine pendevano lungo le sue gambe. Le sembrò di guardare in alto, girando leggermente la testa, per riconoscere la sagoma ben nota. Fumava tranquillamente, boccata dietro boccata, accarezzandola, perduto nel silenzio della notte. Richiuse gli occhi, mentre il nonno la sollevava per portarla in casa. Sognava di volare.
Il nonno le rimboccò le coperte. Lei si girò dall’altra parte, verso la finestra da cui un raggio della luna appena sorta filtrava, mentre il nonno sussurrava: "Buonanotte, Martina.”

Un attimo dopo dormiva profondamente.

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