venerdì 9 maggio 2008

Intermezzo d’estate.




POESIA IN PROSA

D’estate, la Sera è la Cenerentola, mentre il Giorno la fa da padrone. All'Alba si leva, in fretta, il Sole. Regna incontrastato sulla Terra, occupando due terzi della quotidiana parte del Tempo.
Il campo inizia a lasciare, lentamente cedendo al braccio di ferro con l’atteso, sospirato Tramonto.
Impallidiscono i colori dei raggi non più roventi, defedati dalla loro stessa calura, nel mare o al di là delle arroganti alture, colline e montagne, depredate tutto il giorno dall’imponenza dell’ingombrante ospite. Ora si vendicano quei giganti, schiacciandolo in fondo, al limite del mondo visibile, privato delle armi infuocate.


Finalmente accorrono le ombre, spavalde; lo irridono come iene; stemperano i bollori diurni; stendono i canapi per cullanti amache. Progressive ombre inquietanti riversano secchi di invadente oscurità su vallate e  murmuri acque. È l’ora in cui l’astro celeste accetta la sconfitta. Dimentica i quotidiani affanni e accarezza con cauti raggi calanti, ammaliando le nuvole fino a farle arrossire. Attenua le porpore e con dita di pervinca tinge la volta. La natura si arresta. Il Vento, l'Aria, i Viventi ristanno; fissi in un immobile istante. Una frazione di niente, fatto d’indefinito tempo.

E’ allora che inizia a indossare le vesti la Sera. Dal più piccolo al più grande, qualsiasi terrestre, minerale o vivente, nella Sera, trasale. Minuscola Sera. Vita breve avrà, presto soverchiata dal dovizioso abito stellare della sorella maggiore; la Notte l’attende. Giovine Sera: dolce, serena, luminosa; contesa dagli ultimi guizzi che circondano il bordo del globo in un tappeto di violetti e di bruni. La splendida, volubile falce s’affaccia in un cenno di spicchio o nel tondo pieno in forma di lume siderale. Amica della Notte, la Luna, risplende, ammantata della lasciva, perenne, luccicante nudità di cui si adorna. Non ha orari; si leva quando le aggrada. Capricciosa, al tramonto, di sera o a notte fonda, in silenziosa attitudine, emblematica, attraversa il cielo intarsiato di vivide stelle. In pieno giorno passa invisibile; tradisce la Notte, lasciandola, cieca, nella ottenebrante oscurità.


Nel fatidico silenzioso intermezzo sospeso fra giorno e sera, le cicale, sfinite dal pertinace frinire, s’addormentano nell’ intervallo sospeso. Lesto cambia il registro; il grillo si desta. La vita discreta riprende, silenziosa per orecchi che non sanno sentire, per occhi che non sanno vedere, ma più vigorosa, piena, d’intensità vissuta. È l’ora in cui si accendono in piccole e grandi città mille faci. Non più legni ardenti, ma, ormai, mille elettrici fari indiscreti.  In capanne sperdute in dimenticate parti del mondo, fra deserti e savane, qualche lume traballa ancora. In ambiti vari, sulle rive dei fiumi, dei laghi, delle pozze risparmiate dall’arida corsa del carro d’Iperione, convergono processioni di viventi assetati; bar della savana, ristoranti fra palme e datteri, lussureggianti cinema di vita sotto le stelle velate di cieli sterili dell’accecante urbano sfavillio notturno, ricchi di effervescenti umori.

Epicuree comunità vanno all’appuntamento antico e moderno, assolvendo all'atavico rito.
Il mondo si ritrova, si ristora dalla routine faticosa dell’abbagliante Giorno, dal monotono stress, inventando un modo per svagarsi, per soddisfare desideri nascosti, camuffati da bisogni di sopravvivenza; che si tratti solo di abbeverarsi tranquilli o di trastullarsi, lo scopo è sempre quello: la ricerca della felicità. Sentirsi appagati, soddisfatti. Un istante d’apparente serenità, di una gioia fuggente, dà il senso agli sforzi per evitare il pericolo o per correre veloci all’agguato,  per non essere essi stessi preda di qualcun’altro. Un mondo che, evolvendo, è retto ancora da eterne, primordiali leggi; che rincorre se stesso mordendosi la coda. In un ciclo continuo s’avanza, con vesti mutate, con modi diversi, in apparenza; sempre uguali, in sostanza.


Nel prato, un grillo cantava alla luna argentata, sullo specchio d’un lago incantato. Nell’acqua, sul fondo, tra alghe e sassi, un luccio godeva il fresco riposo e l’agguato tendeva in attesa del pasto notturno. Un lampo, un guizzo, un balzo e il povero grillo si trovò, fritto, nelle fauci capaci del lacustre mostro, perché, contento, nel fervore del canto lunare, al pascolo intento, si era sporto un po' troppo nell’alone di un infido lucente fanale. Il tremulo aspetto del misero insetto svelato, sul fondo del lago, aveva, al torvo luccio affamato, che in moto riflesso rispondeva ad un insito, arcaico, primordiale istinto, aggredendo. È come se dopo, ormai divorato, quel grillo non fosse mai nato.


Il povero grillo non sapeva di essere manovrato dalla mano del cielo che l’aveva spinto e punito perché aveva depredato il campo dal pio contadino seminato. Né il luccio, mangiando quel pasto, sapeva che l’indomani l’avrebbe pagata, esalando l’ultima bolla in quella dolce e ridente polla, pescato dalla mano crudele di un neanche affamato, oscuro, umano mortale; preso per la gola, adescato, da una mosca infilata sulla lama di un amo affilato. Né l’uomo immaginare poteva che un domani qualcuno o qualcosa più crudele, più furbo di lui, l’avrebbe ben presto impacchettato e interrato in un sacchetto di ossa.


È questa la storia del mondo tramandata e non scritta da chi non sa né si chiede se sia giusto. Per certo è quello che avviene, né si sa se un domani, più o meno lontano, tutto questo rimarrà inalterato.
Di giorno, di notte, di sera la storia è sempre uguale: chi vive canta e chi muore giace.
Certo è una grande bella sorte in una notte d’estate, sotto una luna d’incanto, d’improvviso giacere mentre canta il creato.


1 commento:

Anonimo ha detto...

Scrivi in modo interessante, forse c'è qualche problema tecnico ma non riesco su alcuni pezzi a visualizzare in modo leggibile i caratteri.

Gaspare/Diaspro